…sentieri di lettura

(fonte foto by catawiki)

Cosa è per noi la pratica dello yoga?

Praticare sembra qualcosa di non traducibile in parole. E, in effetti, attraverso l’ascolto
ricerchiamo un contatto con noi stessi che va al di là di qualunque mediazione.
Personalmente mi dedico allo yoga da diversi anni, da quando Chiara mi ha presa per mano,
avevo sedici anni, e mi ha condotta in questo mondo a me sconosciuto. Ricordo ancora la mia prima lezione…   Ridevo perché non capivo quei suoni strani, i mantra, così lontani dal mio immaginario. Così, il mio primo approccio allo yoga è stata la risata.
Non sono sempre stata costante in questo cammino, anzi spesso sono stata irrequieta e dispersiva, mi sono allontanata per alcuni periodi più o meno lunghi. Tuttavia, qualcosa mi riportava sempre su quella strada. Mi muoveva un desiderio di verità, avere risposta a domande che la mente razionale non poteva darmi. Oggi, a ventidue anni, posso dire con abbastanza sicurezza che lo yoga farà parte della mia vita futura.
Ho sempre amato scrivere, fissare su carta, perché questo mi dà l’impressione di non perdere del tutto quello che ho vissuto, di imprimerlo, di dare dignità a ciò che provo.
In questi giorni, nella situazione strana in cui ci troviamo, parlando con Chiara, abbiamo pensato insieme ad un progetto di scrittura dedicato allo yoga e alle sue varie dimensioni, rivolto alle allieve e allievi del Cerchio. Il senso di questa proposta è di fornirci qualche stimolo in più per approfondire la nostra pratica e ricerca interiore.
Io mi occuperò, con molta modestia, di offrirvi spunti di riflessione tratti o dalla mia esperienza privata o da altre fonti, sia della tradizione sia recenti.

… continua  ” Cosa è per noi la pratica dello yoga?”

( fonte by catawiki )

Mi verranno in aiuto, forse, i miei studi di filosofia, chissà.
Per iniziare, però, vorrei non essere la sola a scrivere e vi sarei grata se mi aiutaste a sciogliere il ghiaccio prendendo parte anche voi alla scrittura.
Che cosa accade quando ci dedichiamo alla pratica dello yoga? Cosa accade quando ci distogliamo da tutto il resto per prendere possesso di un nuovo spazio?  Uno spazio nostro, piccolo certo, ristretto entro i confini angusti del tappetino, ma che si espande insieme con il nostro respiro.
Accade qualcosa che è già un cambiamento, una riscoperta.
Cosa sentite quando salite sul tappetino? Cosa provate nel percepire il corpo aderire al suolo, risvegliarsi, muoversi nello spazio?
Cosa provate quando abbandonate lo yoga per lungo tempo? Cosa vi spinge a riprendere, a fare uno sforzo su voi stessi per ritornare a praticare?
Avete una vocazione al dinamismo o preferite ricercare l’equilibrio e l’immobilità? Dove vi sentite più a vostro agio, negli asana, nel pranayama o nella meditazione?
Come vivete il momento in cui entrate al Cerchio? A quali dettagli del luogo, a quali colori, profumi, ricordi siete più legati?
Sarebbe bello se provassimo a rispondere a queste domande, su cosa la pratica yoga e la realtà del Cerchio rappresentano per ognuno di noi. Condividere riflessioni, pensieri o anche solo frammenti, sarebbe importante per sentirci, pur se a distanza, un gruppo e per mettere insieme le nostre energie. Molti di noi, frequentando corsi e orari diversi, non si conoscono di persona. Chiara ed io speriamo che questa iniziativa possa tessere una rete di fili invisibili tra tutti noi per ricostruire anche quei legami che, in questo momento, sono necessariamente più allentati.

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La ricchezza interiore e lo spazio dell’anima..

Tutti noi abbiamo sperimentato come, in momenti di grande benessere interiore, la nostra percezione sia intensa e vivida.
Al di là della meditazione vera e propria, ci sono momenti della nostra vita in cui ci troviamo immersi in uno stato “meditativo”, quando siamo completamente assorbiti da una attività o in una relazione.
Sono questi i momenti in cui ci sembra di avere una percezione completa e armoniosa della cosa o della persona con cui ci relazioniamo. Abbiamo di essa una visione che la abbraccia totalmente, una visione unitaria e non frammentaria.

Se proviamo a evocare questa sensazione di assoluta presenza, troveremo che è andata perduta in noi la distinzione tra osservatore e osservato. Io non sono più l’osservatore che contempla dal di fuori, anzi vengo a coincidere con ciò che osservo.
Annullandosi questa distinzione tra colui che osserva e ciò che è osservato, viene meno anche il giudizio.
Per questo motivo la verità può essere raggiunta soltanto immergendosi in ciò che si ricerca. Non possiamo pretendere comprendere qualcosa se ci manteniamo a distanza.

Krishnamurti ha a lungo evidenziato come la divisione generi dolore. Dove c’è divisione, non può esservi amore né verso l’altro da me né verso me stesso. Lo yoga dovrebbe essere un cammino verso questa unità, verso un contatto diretto con sé stessi.Quando pensiamo a noi stessi, così come agli altri, ci riferiamo sempre all’immagine che ci siamo costruiti.
Possiamo invece guardare a noi stessi senza mediazioni, senza pregiudizi? E’ il quesito che ci pone Krishnamurti.

…continua ” La ricchezza interiore e l’ho spazio dell’ anima..”

(fonte : commons.wikimedia)

Lo yoga ci insegna questo chiedendoci di ascoltare il nostro corpo, le nostre emozioni e pensieri.
Mi viene in mente una tecnica di rilassamento, che credo tutti noi abbiamo sperimentato. Si pone l’attenzione alle diverse zone del corpo, percorrendolo dalle punte dei piedi fino al capo, attraverso le gambe, l’addome, il torace, il dorso…Portando la nostra presenza in un punto, quella parte viene ad espandersi fino a che noi ci immedesimiamo totalmente con essa. Lanza del Vasto chiedeva ai suoi discepoli di meditare su una sola figura per molto tempo. Assegnava una visualizzazione che poteva durare anche tutta la vita, come l’immagine dell’albero, simbolo del contatto tra la terra e il cielo.
Perché un’ unica figura, con tutte quelle che esistono?
Perché la meditazione per Lanza del Vasto (discepolo occidentale di Gandhi) è approfondimento dell’immagine. Se il maestro fornisse molte immagini, l’attenzione si disperderebbe in una moltitudine di forme offuscate. Dedicando, invece, il tempo di una vita ad una sola visualizzazione, tutta l’energia è incanalata in essa. La nostra percezione è inesauribile: questo significa che potremmo passare tutta la vita a guardare una cosa e trarre da essa un interesse senza fine. Questo, tuttavia, richiede una finezza di ascolto e una capacità di presenza molto profondi. Se il meditare sempre sulla stessa immagine sembra qualcosa di assolutamente distante da noi, pensiamo che, in realtà, facciamo qualcosa di simile quando votiamo la nostra vita ad una persona o ad una passione. Una cosa finita diviene allora illimitata, perché è il nostro amore, la nostra dedizione per essa che l’hanno resa infinita. Il miracolo di trarre da ciò che è povero qualcosa di ricco, lo compiamo ogni giorno, pur non essendo dei o profeti, quando tocchiamo con la nostra anima quello che ci è di più caro. Questo tema è particolarmente attuale oggi, nel periodo che stiamo vivendo, in cui sperimentiamo una limitazione delle nostre libertà. La prigione è, per definizione, uno spazio limitato da confini ristretti e invalicabili, quindi dalla quale non si può scappare con un atto di forza, sfondando le pareti.
Ciò che serve è invece un atto della coscienza. Sono la volontà e la ricchezza interiore che dilatano lo spazio e creano la nostra libertà. La volontà non agisce sul piano fisico, ma su un piano più profondo, creando spazio dall’interno: lo spazio dell’anima.

 

(fonte : commons.wikimedia)

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Riflessioni sul Seminario:

“Il corpo respira, il respiro nei corpi” 

Il respiro è quello che noi siamo…

Il respiro è il bene più prezioso che possediamo. L’anima è stata da sempre identificata con il respiro. Dalla narrazione biblica, in cui Dio infonde respiro nella materia, a quella omerica in cui il pensiero è reso attraverso la metafora dei polmoni. Che il respiro sia vita è tanto vero che la filosofia è giunta a tradurre l’Io penso con Io respiro.

Se ci venisse chiesto di smettere di respirare, non potremmo farlo, perché tutti sappiamo che è irrinunciabile. Eppure respirare bene è qualcosa di cui ci priviamo abitualmente. Ogni giorno disperdiamo un pochino del nostro respiro e lo cediamo alle nostre preoccupazioni quotidiane senza chiedere niente in cambio.
Dove va a finire questo nostro respiro perduto?
Spesso quello che perdiamo è difficile da ritrovare. Così ci adattiamo a un respiro un po’ più corto e rinunciamo a ricercarlo nella sua pienezza originaria. Questa “postura” comporta ciò che chiamiamo blocchi respiratori, che impediscono il libero flusso del respiro nel corpo.

E’ nei momenti in cui respiriamo bene che sentiamo finalmente di ritornare a noi stessi, come un dolce approdo sulle rive della nostra anima. Questa sintonia con noi stessi è forse quello che intendiamo con armonia o felicità. Comunque la definiamo, è una percezione che tutti riconosciamo immediatamente e che proviamo quando ci sentiamo protetti e quando facciamo qualcosa che amiamo.

Il respiro ci rappresenta, sia come esseri viventi che come individui. Ognuno ha un rapporto diverso con il proprio respiro, che rispecchia la sua storia personale e la particolare stagione di vita che sta attraversando.
In periodi storici bui come questo sentiamo come il respiro ci accomuni, come gli avvenimenti del mondo esteriore influenzino la nostra interiorità. Non siamo solo esseri pensanti, ma anche esseri fatti di respiro. Questo è così vero che in epoche di dolore collettivo, è il respiro a farsi carico della nostra sofferenza.
Il prana è infatti l’anello di congiunzione tra il nostro corpo grossolano o fisico, quello energetico, quello mentale e, talvolta, anche mentale superiore. Assume su di sé le nostre emozioni, i pensieri e rappresenta una via di accesso alla coscienza più profonda di noi stessi.

Il seminario “Il corpo respira, il respiro nei corpi” è stato un atto di ringraziamento verso il respiro e ha voluto dedicargli quel tempo e quella attenzione che così poco gli concediamo. Una sorta di omaggio dedicato alla cura del respiro, nel segno del concetto di espansione.
Accuditi da Chiara e Francesca, con capacità e delicatezza, siamo stati guidati in una serie di tecniche di asana e pranayama che stimolano il rilassamento e l’elasticità del muscolo diaframmatico, il rilascio dei blocchi e la fluidità del respiro. Siamo stati introdotti alla visione olistica dell’uomo nello Yoga e alla meccanica della respirazione e del diaframma, un muscolo troppo spesso dimenticato.

Personalmente le due giornate mi hanno permesso di acquisire una maggiore consapevolezza delle interrelazioni che intessono i nostri corpi (sharira) e involucri (kosha). Asana e pranayama contengono già in sé, almeno in potenza, gli stadi successivi del percorso yogico, come la ritrazione dei sensi all’interno, la concentrazione e la meditazione. Quindi un lavoro su un piano può avere una portata molto più ampia e sconfinare oltre sé stesso.

Vorrei concludere con un’ultima considerazione, per la quale devo molto a Francesca: il respiro è sentire per eccellenza, non può essere pensato, non può essere reso attraverso il linguaggio, quindi ci riporta alla parte più irriducibile e vera del nostro essere.

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(fonte :Miniatura di epoca Moghul, 1635 ca. Acquerello e oro su carta. Istituto di Manoscritti Orientali, San Pietroburgo.)

Verso un ideale di Yoga più accessibile e democratico”

Tutti assistiamo oggi alla rapida diffusione dello Yoga e all’emergere di una rete sempre più estesa di praticanti in tutto il mondo. Questo processo ha sicuramente garantito, rispetto a un tempo, un maggiore accesso in Occidente a questa tradizione e alle sue pratiche.
Si potrebbe pensare quindi che la comunità dello Yoga si sia espansa a tal punto da potersi considerare compiuto il cammino verso una sua “democratizzazione”. Eppure non è esattamente così.

Molte persone, infatti, si sentono ancora oggi emarginate o non pienamente adatte ad appartenere a questa comunità . Alcuni stereotipi legati alla razza, al genere o alla posizione sociale condizionano ancora fortemente l’immagine dello Yoga e di chi può praticarlo.
Tale immagine è veicolata soprattutto per via mediatica e attraverso i “social”, dove si assiste alla proliferazione di contenuti che riportano il messaggio di uno “yoga per pochi”.
Questo meccanismo selettivo non è affatto positivo e contrasta con il senso di appartenenza che lo Yoga ha il compito di trasmettere.

Questo non significa che la diffusione dello Yoga debba essere indiscriminata: una giusta selezione non solo è legittima ma anche auspicabile per una pratica che sia salutare. E’ importante che tutti abbiano accesso allo Yoga, ma attraverso canali “protetti” e adeguati alle loro esigenze e possibilità. Perché sia possibile avere cura nel concreto del corpo e dell’anima dei praticanti, bisogna prima di tutto tutelarli.. E’ necessario un insegnante competente in grado di introdurre con gradualità l’allievo nelle pratiche a lui più consone ed adattare le tecniche al corpo e alla psiche della persona eventualmente in difficoltà.

Si deve ricordare prima di tutto che lo Yoga non è una pratica rivolta al corpo, ma primariamente alla mente, al cuore e all’anima. Il corpo fisico è un veicolo che ci permette di accedere alle parti più profonde della nostra interiorità: non è il fine.
Esso è, infatti, è solo il più grossolano dei vari corpi che ci costituiscono ed è lo strumento che permette la manifestazione di quelli più sottili.

Un modo per realizzare un ideale di yoga più accessibile sono le varianti, che consentono di tendere verso una certa posizione rispettando lo stato di ciascuno in quel determinato momento. Partendo da un atteggiamento di ascolto è possibile nella variante trovare “sbocchi e aperture” che ci permettono di avvicinarci al nostro limite e di percepire il piacere dell’evoluzione nella posizione.

Al termine di ogni pratica sarebbe bello che rendessimo grazie al nostro corpo e alla nostra mente per averci concesso energie, movimento e ascolto.
Ogni tempo dedicato allo Yoga è un atto di cura verso noi stessi e un passo nel nostro personale cammino.
Ciò che andiamo cercando non è la perfezione estetica né muscolare, non è in alcun modo la perfezione: è l’evoluzione come esseri umani. Per questa ragione dobbiamo sempre ricordare da dove siamo partiti per misurare il nostro percorso e i nostri miglioramenti.

Ogni individuo è unico da un punto di vista scheletrico, muscolare, psichico e spirituale. Lo Yoga ci accoglie in tutte le nostre diversità e ci spinge sempre avanti a noi stessi, sostenendoci dolcemente nel cambiamento. Nessuno dovrebbe esserne escluso…. a cura di IRENE Lonigro

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“L’abitudine: prigione mentale o ricchezza?”

Ho avuto occasione di ragionare sul valore dell’abitudine con un gruppo di detenuti del carcere di Pavia.
L’abitudine può essere opprimente in alcuni contesti, come quello carcerario, tanto da rappresentare il “fantasma” con il quale è necessario fare i conti ogni giorno.
E tuttavia non è il contesto penitenziario in sé ciò di cui si è parlato in quell’incontro, piuttosto si discuteva dell’attenzione e della disattenzione che abbiamo verso le cose della nostra vita. Quegli oggetti, quelle persone o ancora quei paesaggi che ci costituiscono perché vi siamo immersi quotidianamente e che è facile dare per scontati.Pensiamo alle cose fondamentali, di cui non potremmo fare a meno: sono proprio queste che più spesso dimentichiamo.
Il mare, ad esempio, lo apprezziamo proprio quando ce ne allontaniamo, quando viaggiamo lontano dalla costa e sentiamo un vago senso di scoramento e di nostalgia.
Le relazioni che ci definiscono, con cui quasi abitiamo uno stesso corpo, sono così abituali che manchiamo di rifletterci.C’è un bel racconto di due pesci. Uno chiede all’altro: “com’è l’acqua?” e l’altro, confuso, risponde: “che cos’è l’acqua?”.
Questa piccola storia ci dà modo di riflettere su che cosa costituisce la nostra “acqua”.
Siamo sicuri di sapere rispondere se qualcuno ci chiedesse: “dove siete immersi?”, “quale è il vostro mare?”.

Forse bisogna ogni tanto fare emergere la testa dall’acqua per renderci conto di dove nuotiamo.
Eppure solo con la testa nell’acqua è possibile nuotare veramente. Se fosse quindi giusto tenere la testa sotto? Soltanto così siamo capaci di viverci dall’interno, di essere veramente coinvolti in quello che facciamo. Qui sta il discrimine tra il vivere e il guardarsi vivere.La domanda allora non è se l’abitudine sia un valore positivo o negativo, ma se il nostro modo di affrontarla sia quello giusto.
Si parla spesso di buone e di cattive abitudini. Vorrei riflettere su due accezioni della parola. La prima è l’abitudine come costanza, metodo, disciplina. Intesa in questo senso, l’abitudine è qualcosa che ci forma, ci plasma e che viviamo consapevolmente. Non la subiamo, perché abbiamo verso di essa un atteggiamento attivo.Più spesso pratichiamo Yoga, più naturale saranno per noi i movimenti, maggiore la sintonia con il corpo e con il respiro. Lo Yoga si fonda sulla pratica costante. La costanza ci dà il senso di uno spazio sempre più vasto in cui esprimere noi stessi con padronanza.
Qui l’abitudine, la ripetizione degli esercizi respiratori, corporei o sonori, non è una gabbia in cui ci sentiamo prigionieri. E’ il manifestarsi di una libertà sempre maggiore.

Approfondire è proprio questo: appassionarsi a qualcosa tanto da riviverla tutti i giorni della nostra vita. Posarvi il nostro sguardo attento e coglierne i dettagli.
Lo Yoga ci insegna a coltivare questa “postura”, questo modo di vivere; ci educa a osservare le mutevoli manifestazioni del nostro essere, ad ascoltarci più nel profondo.Questa grande intimità con noi stessi, nasce dalla conoscenza di tutte le nostre parti. Le membra del corpo, che ci accompagnano fedelmente da quando siamo nati; la parte emotiva e quella mentale, che ci aiutano a esplorare il mondo; infine quella spirituale. Da questa consapevolezza totale è possibile procedere alla costruzione di un sé più integro e completo. L’abitudine, se vissuta con profondità e con coscienza, può esserne la chiave.

Essa, tuttavia, è anche all’origine di quegli schemi e cristallizzazioni che limitano il nostro sviluppo personale. E’ la fonte dell’attaccamento verso ciò che è inessenziale, materiale o ancora che non ci appartiene più. L’abitudine come attaccamento ha un effetto negativo sulla nostra evoluzione, perché blocca, anziché stimolare la fioritura delle nostre capacità. E’ proprio nel momento in cui proviamo con fatica a liberarci delle nostre abitudini, che ci rendiamo conto di quanto fossero radicate in noi.Credo che il primo passo da compiere sia quello di maturare un atteggiamento vigile e consapevole verso le abitudini. Quali sono, come e in che misura ci condizionano, come influenzano il nostro quotidiano e, infine, l’immagine che abbiamo del nostro futuro…. a cura di IRENE Lonigro

Il“Tapas”: portare calore nella nostra pratica  a cura di Irene Lonigro

Il termine tapas indica in origine lo sforzo ascetico, in generale. Il suo significato è, letteralmente, quello di “calore, ardore”.
Nella tradizione brahmanica e vedica il tapas ha una funzione creativa tanto sul piano cosmico che su quello spirituale. Questa concezione si ritrova in miti che parlano della creazione dell’uomo e del mondo tramite trasudazione magica.
Il valore del calore, originariamente mitico e religioso, è stato mantenuto nello Yoga tantrico, per essere conservato anche nell’Hatha Yoga, in specifiche pratiche tese a produrre calore, attraverso il movimento del corpo o la respirazione.

Ma in che modo noi proviamo il tapas nel nostro rapporto con lo Yoga? Che valore ha nella nostra pratica quotidiana?
Se pensiamo al primo significato della parola, quello di calore, possiamo vederlo come una purificazione del corpo innanzitutto, quindi dalle tossine, prodotta nel vinyasa e nel pranayama. Nel respiro è in particolare la ritenzione respiratoria (kumbhaka) che ha un valore importante e sacro. Nel vinyasa le posizioni sono connesse al respiro come le perle di una collana al loro filo. Se pratichiamo in un ambiente caldo sequenze dinamiche o asana aventi una specifica intensità, possiamo percepire delle sensazioni profonde sul piano energetico.

Eppure non abbiamo ancora esaurito il senso vasto di questa parola. Tapas è qualcosa di più, che fonda la nostra relazione con lo Yoga. Tapas è anche ardore, quindi focalizzazione nella pratica, ma soprattutto fede e devozione ad essa.
Se pratichiamo, ad esempio, un mantra con tapas, concentrandoci sul valore per noi di ciò che stiamo facendo, sul suo significato, otteniamo benefici più grandi. Estendiamo la nostra percezione, intensifichiamo la vibrazione.

Il tapas si lega alla simbologia del fuoco, ma anche a quella eroica: pensiamo alla respirazione ujjayi, finalizzata a produrre calore, che significa proprio “respiro vittorioso”.
Quando pratichiamo con tapas, in qualche modo, riproduciamo l’antico sacrificio del soma: offriamo il nostro corpo alla pratica per consacrarlo. Per rivivere in noi quel “calore magico” che ha dato origine alla creazione di tutte le cose.
Praticare con tapas è praticare con passione, affidarsi allo Yoga per la propria elevazione spirituale, con lo stesso entusiasmo e fiducia con cui si ama.

Il senso del tempo nello yoga – a cura di Irene Lonigro

Il normale scorrere del tempo si arresta quando iniziamo a osservare. Quando la nostra attenzione si sofferma. Cosa accade? Dov’è il tempo in questi momenti, quando sembra scomparire e lasciare spazio a un grande vuoto? È come se il tempo si riposasse, accanto a noi, per lasciarci come in attesa dell’accadere di qualcosa, che neanche noi conosciamo. Così anche un dettaglio, una sensazione sottile, il suono del respiro divengono dei piccoli miracoli. E noi siamo in grado di vederli, di coglierli, perché – nella pratica – siamo in un atteggiamento di ascolto, perché lasciamo che le cose ci sorprendano.

Il tempo dello yoga, secondo me, è fatto di

Pazienza.

Ascolto.

Immobilità.

Non un’immobilità dove nulla si muove, dove tutto è deserto. Ma un’immobilità ricca, densa. E qui stiamo noi, la nostra presenza, la nostra pratica. Qui impariamo ad avere rispetto verso le cose e verso noi stessi. A rispettare la lentezza, rispettare il silenzio.Lasciare che i cambiamenti avvengano, ma senza forzare: lasciare alle cose i loro tempi perché maturino.

E, più di tutto, il tempo dello yoga è fatto di

Espansione.

È il nostro sguardo che incanala energia e fa espandere l’oggetto su cui si sofferma. Il momento presente diviene esteso, e noi stessi perdiamo i nostri confini abituali, per abitare in un tempo nuovo, più calmo, più profondo, più grande.

Abitare questo tempo fa paura. Perché qui tutto viene alla luce, e dobbiamo affrontarlo da soli. Nello yoga abitiamo la solitudine, quella solitudine che deriva da un contatto diretto con noi stessi. Non c’è più nulla a schermarci, a difenderci. Siamo soli nell’osservare il nostro accadere.

Possiamo trovare aiuto e conforto nel gruppo, andare per un po’ con le altre persone, fare un pezzo di strada per mano. Condividere. Ma l’ultima parte di strada dobbiamo farla da soli, l’accesso alla nostra interiorità è solo nostro.

Solo alla fine, riprendiamo coscienza di quello che abbiamo intorno, delle persone amiche che hanno praticato con noi, e le ringraziamo. Sappiamo che anche loro hanno affrontato questo tempo – il tempo dell’ascolto – e che forse anche loro hanno avuto paura, oppure si sono sentite bene, finalmente nutrite.

Ascoltiamo il canto finale, l’om,e le nostre voci paiono tante colombe che spiccano il volo, in uno stormo arioso.

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